Dopo il Regno Unito, anche la Spagna deve fare i conti con i movimenti separatisti. Il 27 settembre, infatti, il presidente catalano Artur Mas ha firmato un decreto con il quale convoca per il 9 novembre un referendum sull’indipendenza della Catalogna. L’opposizione di Madrid, però, non si è fatta attendere: il primo ministro Mariano Rajoy ha dichiarato che il voto “non è compatibile con la costituzione spagnola”, e ha pertanto chiesto alla corte costituzionale spagnola di respingere la proposta avanzata dalla Catalogna. Una consultazione che il premier ha definito “gravemente antidemocratica”. Rajoy ha proseguito dicendo: “Finché io sarò a capo del governo la legge sarà rispettata nella sua integrità. All’interno della legge il dialogo è possibile, al di fuori di essa nessun dialogo. Niente e nessuno riuscirà a dividere la Spagna”. Il dito è puntato contro la Generalitat (il governo autonomo catalano), rea agli occhi della capitale di portare avanti una politica del “fatto compiuto”, che pretende l’appoggio di posizioni ritenute dal governo centrale impossibili.
Da anni la Catalogna, la regione spagnola più ricca e industrializzata del paese (con un Pil di 22 miliardi di euro, pari al 20% del Pil nazionale), chiede che sia revisionato, rivisto e corretto il sistema di autonomia.
Lo scorso 11 settembre, giorno della “Diada” (la festa della comunità catalana che ricorda la conquista di Barcellona da parte delle truppe borboniche di Filippo V di Spagna nel 1714), quasi due milioni di persone hanno colorato le strade barcellonesi di giallo e rosso (i colori della bandiera della Catalogna) per chiedere la convocazione ufficiale del referendum.
Aurora Circià








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