a cura della dott.ssa Valeria Barbagallo

Questa settimana vi presento la penna emergente Alfonso Gelo. È laureato in Giurisprudenza ed abilitato all’attività forense, tra le sue passioni affiora la scrittura, attraverso la quale riesce ad incastonare elaborati di pensiero raffinati e sottili.

Radical chic è una di quelle parole che ancora rimangono confinate nelle polemiche pubbliche e chissà se mai arriveranno al linguaggio comune di strada, come definizione oppure, più prevedibilmente, come insulto.
Eppure si potrebbe utilizzare per spiazzare gli interlocutori, magari nel corso di una polemica, dare del “radical chic”. Non rischieremmo la querela e non tanto per ignoranza del presunto offeso ,quanto per la confusione che sta attorno a questa parola.
Facciamo un po’ d’ordine ma senza fare distinzione con l’accetta che sarebbe troppo radical ma poco chic.
Il termine fu coniato da Tom Wolfe giornalista e scrittore americano per raccontare un party dell’alta società newyorkese tenuto a casa del celebre compositore Leonard Bernstein, per la raccolta di fondi per un gruppo rivoluzionario marxista leninista.
Il resoconto spietato di Wolfe, critica con sarcasmo la contraddizione tra le buone intenzioni “radical” da un lato, quindi contro la discriminazione e a tutela dei poveri, e le manie “chic”, dall’altro, quindi dal posto dove andare nei fine settimana all’arredamento appropriato (leggasi ricco) e dall’avere domestici.
Evidentemente il termine si presta a essere utilizzato come arma polemica se è vero che Montanelli qualche anno dopo lo scagliò contro Camilla Cederna “rea” di subire il fascino degli anarchici che “perlomeno odorano l’uomo forse un po’’ troppo”.
Il radical chic sarebbe allora, a detta di chi li critica, una sorta di versione ancora più antipatica dello “snob”. Anche qui un bel paradosso, se pensiamo che snob significa esattamente “sine nobilitas”, proprio il contrario.
Ovviamente la disputa ha assunto anche un sapore politico, il termine è diventato una sorta di insulto jolly utilizzato sia dalla sinistra radicale che da destra.
Ed è anche complicato andare a individuare chi è davvero radical chic. Se lo scrivesse oggi, Wolfe probabilmente tra le caratteristiche chic includerebbe l’attenzione maniacale al cibo, alla ricerca del gastronomicamente corretto.
Al di là, però, di alcuni tratti, è difficile individuare chi sia il radical chic, paradossalmente la fama/insulto di radical chic è finita anche su chi “radicale” non lo è per nulla.
Insomma parliamo di una definizione ironica buona per tutte le stagioni, ma deformata rispetto alla sua origine.
E se la categoria non riesce ad essere simpatica neanche la sponda opposta, cioè quelli che utilizzano l’insulto in maniera strumentale, merita ammirazione, anche se va detto prevale.
Il linguaggio politicamente scorretto, infatti, ha reso il radical chic, vero o presunto, un imputato che si difende in maniera goffa.
E bisogna riconoscere la rude efficacia del politicamente scorretto, visto che la rudezza del linguaggio non provoca fastidio ma anzi appare come indizio di sincerità, pragmatismo.
L’ ipotetico insulto da contrapporre come esatto contrario “moderate inelegant” oltre a suonare male, diventerebbe più che un insulto, un attestato che sarebbe ostentato per strappare consensi.
L’aspetto triste in tutto questo è che i valori della giustizia sociale, della radicalità, della raffinatezza, della coerenza, della chiarezza rischiano di essere vittime incolpevoli di una disputa in cui tutti gli altri hanno torto.
In attesa di tempi migliori, possiamo provare a riscoprire il valore del buon senso in maniera apparentemente leggera.
“Radical chicco”, cosi si è autodefinito Enrico Mentana per rispondere alla solita accusa di uno dei cosiddetti odiatori della rete.
Risposta ironica disarmante, peccato che valga solo in caso di omonimia.
Alfonso Gelo






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