Rubrica Penne Emergenti a cura di Valeria Barbagallo
ARTICOLO DI MARIA FRANCESCA MOLINARO
The Killing of a Sacred Deer, giunto in Italia ben nove mesi dopo la sua uscita in America quando la sua distribuzione non venne neanche presa in considerazione qui da noi, non poteva che essere il degno erede dell’acclamato The Lobster tanto apprezzato dalla critica d’oltralpe e da quella internazionale.
Lanthimos fa del cinema d’autore e della peculiarità di modus delle sue maschere in una cornice pseudo Hollywoodiana il suo marchio di fabbrica.
E così, sulla scia di uno sfondo quasi irreale dove il confine fra bene e male è del tutto assente tanto da confondere lo spettatore, la routine di Steven, chirurgo con una vita ed una famiglia tanto esemplare e distaccata da avere una solidità di cristallo, viene sconvolta dal giovane Martin, una sorta di nemesi anch’egli razionale e freddo come il personaggio di Steven, ma che ribalta completamente e all’improvviso la sensatezza delle cose e la loro quiete in una vendetta metodica e silenziosa.
In quel che vuol essere un mezzo spaccato di vita con dell’ironia di fondo per come situazioni così assurde, tragiche, vengano affrontate dai personaggi con una irritante ed angosciante tranquillità, laddove anche i momenti di picco, di maggiore drammaticità sono trattati con una certa smorzatura così tanto da sembrare di essere un teatro nel teatro, Lanthimos rende ancora una volta questa ottica appannata uno stile che in pochi riescono ad apprezzare ma che apprezzano pienamente.
Il regista greco è una pesante rottura con quelli che sono i filoni portanti di Hollywood che fra mega blockbuster da produzioni miliardarie e film indipendenti, sembrano tutti seguire lo stesso tema centrale deciso di anno in anno e dunque poi premiato, automaticamente, da chi dice di voler gratificare il vero cinema.
Ma il cinema di Lanthimos non segue nessun filone o nessun tema del momento; l’autore fa delle angosce personali il fulcro delle sue pellicole dove una moralità del tutto assente muove cose e personaggi quasi senza un apparente senso.
The Killing of a Sacred Deer è una rielaborazione in chiave contemporanea della tragedia greca Ifigenia in Aulide di Euripide che nella sua particolarità di caratterizzazione, viene accusata di mancare di mordente. La pellicola si sviluppa attraverso un uso magistrale della cinepresa, capace di creare suspense e disturbo con l’alternanza armonica di differenti angolazioni ed inquadrature.
Tutto in uno sfondo simbolico, metaforico Kubrickiano dove forse una troppo stereotipata Nicole Kidman, che ultimamente sembra voler e riuscire ad interpretare ruoli solamente alteri e sciapi e venir anche premiata per questo, si affianca ad un Colin Farrell dai mille volti che è riuscito e anche bene, negli ultimi anni a dimostrare di non essere un attore relegato ai soli film d’azione ed una copia tutta Irish di Schwarzenegger, benché Hollywood stenti a riconoscere il valore di attori ormai fuori dal cosiddetto giro.
Ma il perno di tutta la questione è la stella nascente, anch’egli irish, di Barry Keoghan che con la sua latente psicolabilità, offre alla pellicola il giusto ritmo incalzante e di tensione che blocca lo spettatore disorientato verso uno scioglimento che, se possibile, lo lascia persino più turbato e confuso.
Non è questa forse una forma di novità nel cinema? La cosiddetta mancanza di mordente di un film che non fa uso di cornici di gusto, di un modus nell’affrontare le questioni che non mette a suo agio lo spettatore solo per piacere, in scelte seriamente indipendenti e di rottura in cui, comunque, “attoroni” vengono ridimensionati e plasmati in volti di nicchia.
Un film che è seriamente capace di smuovere qualcosa e porgere delle domande scomode.
Lanthimos ci riprova e riesce angosciosamente bene.
Maria Francesca Molinaro







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