RUBRICA A CURA DI VALERIA BARBAGALLO
MIMESIS- IMITAZIONE
Oggi parleremo della Mimesis- imitazione, messa in scena nel teatro antico, in grado di suscitare immedesimazione nei personaggi della vicenda, gli attori, da essi portata in scena. Chi ascolta viene assalito inconsciamente da un tremito di paura, da una pietà che in taluni induce al pianto, da uno struggente dolore.
L’anima per effetto delle parole soffre per le fortune e le sfortune altrui, come se fosse quella sofferenza gli appartenesse. La tragedia non è nient’altro che un inganno per il quale chi inganna agisce meglio di chi non inganna e chi si lascia ingannare è più saggio di chi non si lascia ingannare‘. Pertanto sin dall’antichità gli attori che andavano in scena in un teatro greco dovevano essere dotati di notevoli capacità recitative.
Come era dunque possibile suscitare sentimenti quali pietà e paura? Tutto era affidato alla bravura degli stessi attori recitanti, i quali con le loro voci giocavano sul volume, sul tono e sul ritmo della voce, caratterizzando ogni personaggio interpretato e variando, di volta in volta, gli stati d’animo dei personaggi interpretati; pertanto non è un caso che gli attori impegnati in messe in scena tragici fossero differenti da quelli impiegati per la commedia.
Cambiare voce con la stessa facilità con cui cambiava la maschera, trasformandosi da uomo in donna, da giovane in vecchio, dal semplice recitato al canto. Nei grandi teatri di pietra a cielo aperto quali quelli dell’antichità, necessitavano potenza e chiarezza della voce, delle belle voci che potessero cantare, ed agilità fisica per movimenti di danza e per gesti eccellenti. Ai primi arbori della tragedia greca in scena vi era un unico attore, magari lo stesso poeta medesimo, che interloquiva con un coro, il quale eseguiva o mimava con il canto e la danza.
Bisognerà aspettare Eschilo e Sofocle, per vedere aggiungersi in scena il secondo ed il terzo attore. Gli attori si distinguevano in protagonista, deuteragonista, tritagonista. Già intorno al 449 a.C. per gli attori che si sarebbero contraddistinti era previsto un premio per il lavoro svolto. È fu così che ebbe inizio la professione dell’attore, che, per gli attori più bravi, era ben remunerata. Non era raro che un singolo attore interpretasse più ruoli, sia maschili sia femminili, visto che alle donne era fatto divieto di recitare.
Le”presenze mute” erano quei personaggi presenti ed assenti sulla scena, che per tutta la durata della performance non pronunciano battute, necessari per caricare la storia della tragedia e facendola risultare pregna di pathos. ”Prosopon” era la maschera, fatta sostanzialmente di lino, o cuoio, o anche a volte di sughero, altre volte di legno o cartapesta. Era uso che la si dipingesse di bianco per identificare le parti gli maschili, e in un tempo dove alle donne non era permesso recitare il colore grigio per le maschere che rappresentavano ruoli femminili, la maschera veniva fissata al mento con delle stringhe, essa presentava lineamenti ben marcati, provvista sempre di piccole fessure negli occhi da permettere all’attore di poter vedere, la bocca, per lo più era, ed assumeva stati d’animo diversi, mentre in testa era uso indossare una parrucca di lana.
In scena l’attore poteva cambiare più maschere nel corso di una stessa rappresentazione tragica. Il pubblico sapeva individuare benissimo dalla maschera dell’attore, conoscendo la trama di ogni tragedia, il personaggio di cui quest’ultimo si faceva portavoce. La maschera in realtà era il modo con cui gli agli attori, visto il numero limitato, di cambiare la loro identità. Il costume di scena era vistoso, riccamente rifinito, di colori vivaci, tranne per i personaggi in lutto che venivano abbigliati di nero, e quelli la cui condizione era regale venivano contraddistinti dal colore porpora. Gli attori indossavano il chitone, una tunica sulla quale si poneva mantello adagiato sulla spalla destra, o la clamide un mantello sulla spalla sinistra caratteristico di eroi e re; per scarpe invece si indossavano i coturni, stivali dalle suole sottili, molto morbidi, che allacciati coprivano il polpaccio.
Calogero Matina Kalos






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