Domenico Tempio detto anche Micio nacque a Catania il 22 agosto 1750, morì il 4 febbraio 1821. Coetaneo del grande poeta siciliano Giovanni Meli, nato a Palermo il 6 marzo 1740, morto 20 dicembre 1815, chiamato anche “abate” in quanto vestiva sempre da prete senza prendere i voti.
L’ anno della nascita di Tempio, oltre ad essere ricordato nella sua città natale di Catania è stato commemorato dal Centro Studi Andrea Finocchiaro Aprile di Palermo.
“Al grande Poeta Siciliano, Domenico Tempio, per esprimere i propri sentimenti ed i propri convincimenti politici (peraltro di altissimo livello culturale ed espressione di grande sensibilità sociale), usava esclusivamente la lingua siciliana. Il Centro Studi “A.F.A.” nella ricorrenza dell’anniversario della nascita ritiene doveroso rendere omaggio alla memoria di Domenico Tempio rinnovando l’appello per la salvaguardia e la difesa della lingua siciliana che appunto trovarono in lui e nel suo contemporaneo Giovanni Meli i più grandi cultori.
La Lingua Siciliana – però – oggi è purtroppo oggetto di tentativi di “soppressione” nell’ambito di una grande manovra di “deculturazione e di denazionalizzazione” del Popolo Siciliano. Un pericolo , questo, del quale aveva lanciato – alcuni decenni orsono- un profetico ed appassionato allarme anche il Poeta Siciliano, nostro contemporaneo, Ignazio Buttitta.
Del Tempio, ricordiamo in particolare il giudizio di Santi Correnti che negli anni “novanta” del secolo scorso sottolineava come il grande Poeta Siciliano “di gusto illuministico e Neo-classico, fosse più noto per i suoi versi licenziosi (che spesso non sono neppure suoi, ma che gli sono stati attribuiti dalla tradizione) piuttosto che per le cose veramente belle che ha scritto e per la vita onesta e intemerata, onde è in gran parte ancora un poeta da scoprire”.
Va anche detto che lo stesso Santi Correnti precisa che il Tempio fu un Poeta “potentemente realista” e che il suo “capolavoro” è il poema sociale “la carestia”, nel quale si descrive una grande rivoluzione popolare di Catania.” Domenico Tempio, era figlio di un mercante di legna, fu avviato alla carriera ecclesiastica prima e alla giurisprudenza poi: in entrambi i casi falli e decise di dedicarsi agli studi umanistici. Studioso sia degli autori classici che dei suoi contemporanei, Tempio iniziò presto a scrivere in versi e acquistò fama di buon poeta.
Fu accolto nell’Accademia dei Palladii e nel salotto letterario del mecenate Ignazio Paternò principe di Biscari. Sposò Francesca Longo, che morì di parto. La figlia fu così accudita da una balia, la Caterina, che diventò la sua compagna fedele e gli diede un altro figlio. Fu nominato notaio del casale di Valcorrente (nei pressi dell’odierna Belpasso ottenne una pensione sul Monte di pietà e sulla Mensa vescovile e un sussidio dal Comune di Catania fino alla sua morte. Considerato il maggiore poeta riformatore siciliano, conosciuto e apprezzato dai contemporanei, presto dimenticato: per tutto il 19° secolo fu censurato e bollato come poeta pornografico, prendendo spunto solo da una parte delle opere scritte, dopo anni la sua grande opera venne rivalutata. E’ considerato un poeta libero che usa tutti i suoi mezzi per smascherare le falsità e gli inganni della società. Le sue opere spaziano dall’esaltazione dell’operosità dell’uomo alla critica alla Chiesa, dalla contemplazione della natura alla critica dell’ignoranza.
La sua stessa Sicilia è vista rivalutata da un realismo che spazza via il mito di una società pura e incontaminata. In alcune opere anticipa ampiamente il movimento verista che si sarebbe affermato solo quarant’anni dopo la sua morte. Lotto contro i pregiudizi, i vizi, soprusi e le angherie dei potenti. Nell’opera “Patri Siccia” (seppia) denuncia quello che oggi è il problema dei preti pedofili. Spietata accusa che prospera nei conventi, ma anche altrove della pedofilia. Scena che si svolge dentro una cella del convento, tra il monaco e il giovane Pippuzzo. La “monaca disperata”, una suora di clausura che si dispera e anela per avere un uomo che la possa soddisfare sessualmente. Nel sonetto “Pilatu”, maledice quella fessura dove è uscito appunto Pilato. Nella Carestia, oltre alla fame del popolo si verifica il connubio tra politica e chiesa cattolica. Il popolo che aveva fame per la carestia in corso, ma anche per il malgoverno e le angherie subite dai governanti, tumultuava sotto il palazzo del deputato appiccandovi fuoco, mentre il municipio era assediato da una ciurma di donne, che costrinsero il sindaco a rifugiarsi nel convento dei benedettini. La sommossa fu calmata dal principe Vincenzo Paternò Castello di Biscari che apri i suoi magazzini dando da mangiare al popolo affamato. In mastro Staci, misero materassaio che la natura lo ha ben attrezzato sessualmente, il notaio che lo ha notato racconta alla moglie le doti del mastro, e la donna con grande lascivia e desiderio fa in modo di incontrare il materassaio. Incontro che stava per finire in tragedia. La favola “la libertà”, in una gabbia era rinchiuso un cardellino che saltava e svolazzava dentro la sua prigione. Il padrone le diceva questa prigione gabbia, ti salva da cacciatori, artigli di nigghi e spalvieri. Mosso a pietà apri la gabbia facendo uscire il cardellino, che non essendo pratico del volo per la lunga prigionia, cadde tra le grinfie di un gatto. L’uccelletto vedendosi schiacciato dalla grinfie del gatto gridava “o libertà funesta.”
Michele Milazzo






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