Il Cavallo simbolo della Rai. Tutto merito di un siciliano


Il maestoso Cavallo che da oltre cinquant’anni presidia l’ingresso della Direzione Generale della RAI in viale Mazzini a Roma ha una storia avvincente e travagliata, che riflette l’impegno e la passione dell’artista che lo ha concepito, Francesco Messina.Secondo le intenzioni dell’autore, il Cavallo rappresenta un equino ferito che si sta sollevando da terra, nell’atto di puntellarsi sulle gambe anteriori mentre lancia il suo ultimo nitrito. 

Questa scultura in bronzo di dimensioni gigantesche, alta più di quattro metri e lunga oltre cinque, è diventata uno dei monumenti più significativi del Novecento italiano. Nel corso degli anni, è diventata anche il simbolo stesso della RAI, l’importante istituzione mediatica italiana. Nel 2000, l’Istituto Centrale per il Restauro ha effettuato un importante intervento di restauro sull’opera, preservando la sua integrità e bellezza per le generazioni future. Francesco Messina, nato a Linguaglossa nel 1900, figlio di migranti siciliani, iniziò la sua carriera come garzone marmista a Genova. 

Fu solo quando si trasferì a Milano che la sua vita prese una svolta significativa. Ottenne la cattedra di scultura all’Accademia di Brera e in soli due anni ne divenne il direttore. La sua fama crebbe ulteriormente quando, dopo la Seconda Guerra Mondiale, espose con grande successo a Buenos Aires, dove le sue sculture raffiguranti cavalli suscitarono un forte impatto emotivo nel pubblico e nella critica. In seguito a questi successi, l’allora direttore generale della RAI, Bernardi, propose a Messina di creare una grande scultura di un cavallo da collocare nella nuova sede di viale Mazzini, progettata secondo gli stilemi dell’International Style dall’architetto Berarducci.

La realizzazione di un’opera di dimensioni così imponenti rappresentò una sfida notevole per lo scultore siciliano. Per sostenere le diverse tonnellate di creta necessarie, fu necessaria un’armatura apposita. Inoltre, la grandezza della scultura richiese uno spazio più ampio rispetto al suo studio di Brera, e fu quindi ospitata presso la Fonderia Battaglia. Francesco Messina lavorò instancabilmente per sei mesi, sfidando le avversità e la fatica. La sua autobiografia, intitolata “Poveri Giorni” ( Rusconi Editore, 1974 ) racconta come il grido morente del cavallo sembrasse riflesso delle sue stesse difficoltà durante la realizzazione dell’opera. Le sue mani consumate e dolenti non gli davano la certezza di riuscire nell’impresa, ma con l’aiuto dei suoi assistenti riuscì a modellare la creta sull’armatura.

Una volta completata, la scultura presentò ulteriori ostacoli dovuti alle sue dimensioni straordinarie per l’epoca. Nessuno si sentì in grado di trasportarla a Roma, poiché era troppo grande per passare indenne sotto i ponti o attraverso le gallerie dell’Autostrada del Sole. La soluzione fu quella di tagliare la coda, far viaggiare il bronzo mutilo e poi riattaccarla sul posto. Tuttavia, quando l’opera arrivò a destinazione, la dirigenza della RAI considerò che non si adattasse allo stile razionalista della nuova sede, preferendo una scultura astratta più in linea con l’International Style. 

Fu tentato di trovarle un’altra collocazione, magari sulla grande piazza antistante. Fortunatamente, Francesco Messina intervenne per difendere la sua opera, affermando che il cavallo era stato concepito per stare nell’aiuola di fronte al palazzo e che “lì doveva rimanere”. Alla fine, persino l’architetto Berarducci, inizialmente scettico sull’opportunità di una scultura figurativa, si congratulò con lo scultore, riconoscendo che il grande cavallo di bronzo smeraldino apportava un vitale contrasto alla concezione funzionale del suo edificio, come un’estrosa fiammata. Nonostante le difficoltà incontrate durante la sua creazione e i dubbi iniziali, oggi rappresenta un punto di riferimento visivo e culturale, sia per i visitatori della RAI che per gli appassionati d’arte.

Danilo De Luca

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