In Italia il lavoro costa il doppio ma gli stipendi restano bassi


Il paradosso dei numeri

In Italia il conto è impietoso e, soprattutto, concreto. Per permettere a un dipendente di portare a casa circa 25.900 euro netti in un anno, un’azienda arriva a spendere intorno ai 48.000 euro. Nel mezzo c’è una retribuzione lorda che si aggira sui 35.000 euro: tutto il resto scivola via tra tasse e contributi, divisi fra datore di lavoro e lavoratore. È il cuneo fiscale che tutti citiamo, ma che pochi riescono a tradurre in una realtà quotidiana: un dipendente vede un netto che fatica a tenere il passo con il costo della vita, l’impresa sostiene un costo totale che limita gli spazi di manovra su aumenti e nuove assunzioni.

Il punto di vista dei lavoratori

Chi lavora questa sproporzione la sente sulla pelle prima ancora che nei numeri. Con un netto annuo intorno ai 25 – 26 mila euro, la rincorsa fra stipendi e spese è continua: affitti in salita, bollette altalenanti, trasporti, spesa alimentare. Finite le scadenze del mese, il margine si assottiglia e spesso viene azzerato da imprevisti che mandano in tilt il bilancio familiare. La frustrazione nasce qui: si lavora, si tengono le competenze aggiornate, si prova a crescere, ma il riconoscimento economico tarda ad arrivare. Non è solo un tema di “quanto si guadagna”, ma di quanto potere d’acquisto effettivo rimane per vivere con serenità.

L’effetto sugli stipendi

La macchina si inceppa anche quando si parla di aumenti. Se un’azienda decide di riconoscere 100 euro netti in più al mese a un dipendente, il costo che deve mettere in conto può superare il doppio di quella cifra, una volta conteggiati contributi e imposte connesse. È qui che si spegne la possibilità di premiare il merito o semplicemente di adeguare le retribuzioni all’inflazione: ciò che arriva al lavoratore tende a essere molto meno di ciò che l’impresa deve spendere. Gli aumenti rischiano così di trasformarsi in piccoli ritocchi che si perdono lungo il percorso, lasciando intatto il problema di fondo.

Il peso sulle imprese

Dal lato delle aziende, soprattutto piccole e medie, la questione è altrettanto serrata. Il costo del lavoro è uno dei capitoli più impegnativi del conto economico. Quando si vuole assumere o valorizzare chi è già in organico, ci si scontra con oneri che rendono complicato programmare nel medio periodo. Le grandi multinazionali hanno talvolta margini più ampi e strutture in grado di assorbire l’impatto; la media impresa italiana, che costituisce l’ossatura del nostro tessuto produttivo, spesso non può permettersi lo stesso respiro. Il risultato è un freno alla competitività e, a cascata, a quella crescita che dovrebbe alimentare salari più alti.

Il circolo vizioso: un cane che si morde la coda

Tutto questo genera un circolo vizioso che si autoalimenta. Stipendi netti bassi riducono i consumi, i consumi deboli frenano il fatturato delle imprese, i margini risicati impediscono aumenti significativi e nuove assunzioni, e così via. È il classico cane che si morde la coda: se non s’interrompe l’anello debole – il divario fra costo per l’azienda e netto in tasca – non si libera energia per rilanciare né i redditi né la domanda interna. Nel frattempo, i lavoratori più qualificati guardano altrove, alimentando una fuga di competenze che impoverisce l’ecosistema produttivo e ostacola l’innovazione.

Tra merito e prospettive

Dal punto di vista del lavoratore, la questione non è (solo) lo stipendio in sé, ma la prospettiva. Vedere che il proprio impegno non si traduce in una crescita tangibile—una casa più vivibile, un risparmio, qualche investimento sulla formazione o sui figli—erode motivazione e fiducia. Anche dentro le aziende, questo si traduce in minor engagement, difficoltà a trattenere i profili migliori, calo di produttività. Quando la retribuzione fatica a crescere, cresce invece la distanza tra ciò che il dipendente dà e ciò che percepisce di ricevere.

Riallineare costi e tutele

Spezzare la spirale richiede un lavoro su due fronti. Da un lato ridurre il cuneo per chi guadagna meno e per le imprese che assumono o valorizzano i propri dipendenti, rendendo più lineare il rapporto tra costo aziendale e netto in busta. Dall’altro, favorire percorsi di crescita professionale che traducano la maggiore produttività in retribuzioni più elevate, senza che gli aumenti si dissolvano in oneri intermedi. Non si tratta di scardinare le tutele, ma di riallinearle affinché proteggano senza soffocare, permettendo a chi lavora di vedere riconosciuto il proprio valore e a chi impiega di investire con più coraggio.

Valeria Buremi

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