Nel confronto europeo sui salari giovanili l’Italia emerge come un caso anomalo, e non in senso positivo. Nel 2024 il salario medio degli under-24 italiani vale il 55,7% di quello dell’intera popolazione nazionale: un livello simile a quello di altri grandi Paesi europei. Ma è il percorso a fare la differenza. Negli ultimi dieci anni, mentre altrove il divario tra giovani e adulti si è ridotto o almeno stabilizzato, in Italia si è ampliato drasticamente. Dal 2014 a oggi il rapporto è sceso di 12,3 punti percentuali, segnando il peggior arretramento tra i principali Paesi UE.
Il dato racconta una verità scomoda: entrare oggi nel mercato del lavoro italiano significa partire più indietro di ieri, e con meno possibilità di recuperare terreno. Non si tratta solo di stipendi bassi, ma di una struttura occupazionale che tende a bloccare la crescita salariale proprio nella fase in cui dovrebbe accelerare.
Le cause sono note e stratificate. I giovani sono concentrati in contratti a termine, apprendistati poco remunerati e part-time involontari, formule che riducono il reddito mensile e ritardano l’accesso a tutele e progressioni. A questo si aggiunge una produttività ferma da decenni, che limita gli aumenti salariali complessivi e colpisce soprattutto chi entra ora nel sistema. Infine, il tessuto produttivo italiano – frammentato, composto in larga parte da micro e piccole imprese – fatica a offrire percorsi di carriera strutturati e aumenti rapidi nelle fasi iniziali.
Il divario territoriale: quando essere giovani al Sud pesa doppio
Se il quadro nazionale è critico, nel Mezzogiorno la situazione è ancora più penalizzante. Qui il problema salariale si intreccia con una minore disponibilità di lavoro stabile e qualificato. I giovani del Sud non solo guadagnano meno rispetto alla media italiana, ma impiegano più tempo a entrare nel mercato del lavoro e, una volta dentro, restano più a lungo intrappolati nella precarietà.
La Sicilia rappresenta uno dei casi più emblematici. L’occupazione giovanile è storicamente bassa e i salari medi risultano tra i più contenuti del Paese. Le opportunità si concentrano in settori a basso valore aggiunto, come commercio, turismo stagionale e servizi poco qualificati, dove la retribuzione iniziale è ridotta e le possibilità di crescita sono limitate. Il risultato è un doppio svantaggio: stipendi bassi e assenza di prospettive di avanzamento.
In questo contesto, il confronto con il Nord non è solo economico ma generazionale. A parità di età e titolo di studio, un giovane siciliano ha meno probabilità di ottenere un contratto stabile e, quando lo ottiene, parte spesso da livelli retributivi inferiori. Non sorprende quindi che la Sicilia sia tra le regioni con il più alto tasso di emigrazione giovanile qualificata: chi può, va via. Chi resta, accetta salari più bassi e carriere più lente.
Un problema che non è più rinviabile
Il calo del rapporto tra salari giovanili e media nazionale non è un semplice indicatore statistico: è il segnale di un patto generazionale che si sta spezzando. In Italia lavorare da giovani rende meno di quanto rendesse dieci anni fa, e nel Sud, Sicilia in testa, rende ancora meno.
Senza interventi strutturali su qualità del lavoro, produttività e sviluppo territoriale, il rischio è chiaro: una generazione che lavora di più, guadagna meno e guarda altrove per costruirsi un futuro. E un Paese che, continuando a perdere i suoi giovani, impoverisce se stesso, economicamente e socialmente.
Valeria Buremi






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